|
Come possiamo definire il conflitto di interessi in condominio, o meglio in assemblea condominiale?
In estrema sintesi, come un contrasto tra l'interesse del singolo e quello della collettività.
Si ha un conflitto di interessi ad es. quando si vota circa la revoca dell'amministratore e l'amministratore è uno dei condòmini, oppure quando si delibera di agire giudizialmente nei confronti di un condòmino moroso, etc.
Con un'espressione più precisa, si può definire il conflitto di interessi in condominio come la presenza di un interesse proprio o la titolarità in relazione all'oggetto della deliberazione, di un interesse particolare contrastante, anche solo potenzialmente, con quello condominiale (v. Cass. n. 19131/2015).
In tali casi, può votare il condòmino che si trova in conflitto di interessi?
Come si computano le quote millesimali e il voto nel calcolo delle maggioranze per la costituzione dell'assemblea e le approvazioni delle delibere?
Le norme in materia di condominio non prevedono nulla per regolare il caso di una votazione in conflitto di interessi, sicché la giurisprudenza, spesso chiamata a misurarsi con tale problema, ha risolto la questione con l'applicazione analogica di una norma esistente in materia societaria.
Si tratta dell'art. 2373 c.c., che per quanto qui interessa, oggi prevede:
la deliberazione approvata con il voto determinante di coloro che abbiano, per conto proprio o di terzi, un interesse in conflitto con quello della società è impugnabile... qualora possa recarle danno. Gli amministratori non possono votare nelle deliberazioni riguardanti la loro responsabilità. I componenti del consiglio di gestione non possono votare nelle deliberazioni riguardanti la nomina, la revoca o la responsabilità dei consiglieri di sorveglianza (art. 2373 c.c.).
Come si diceva, le sentenze che si sono misurate con la questione sono molte; noi qui accenneremo ad alcune di esse che rappresentano un orientamento prevalente dal 2002 in poi: Cass. 1201/2002, Cass. 19131/2015 e Cass. 1853/2018.
Nella sentenza n. 1201/2002 la Corte di Cassazione prende atto della non esistenza di una norma specifica in materia condominiale e altresì dell'orientamento giurisprudenziale che applica al condominio, per analogia, l'art. 2373 c.c. previsto in materia societaria, secondoil quale nella versione precedente alla riforma del D.Lgs. 6/2003 il socio in conflitto di interessi doveva astenersi ed era impugnabile la delibera
se, senza il voto dei soci che avrebbero dovuto astenersi dalla votazione, non si sarebbe raggiunta la necessaria maggioranza (art. 2373 c.c.).
L'ultimo comma dell'art. 2373 c.c. distingueva tra il quorum costitutivo e il quorum deliberativo, prescrivendo il computo delle azioni per le quali non poteva essere esercitato il diritto di voto, ai fini del calcolo del quorum costitutivo dell'assemblea.
Tale ultima previsione ha portato la giurisprudenza dominante a concludere che, nel silenzio della legge riguardo al quorum deliberativo, la quota del socio in conflitto d'interessi non si dovesse calcolare a tali fini.
La sentenza del 2002 osserva però che anche ad ammettersi dal semplice silenzio della legge, tale conclusione in materia societaria (conclusione per la sentenza del 2002 non è immune da critiche), è necessario operare alcuni distinguo tra condominio e società.
Nel condominio non esiste un fine gestorio autonomo: non vi è, cioè, un fine gestorio del gruppo distinto da quello dei partecipanti e anche in caso di conflitto di interessi, il conflitto è quello che sussite in capo allo stesso soggetto in quanto condòmino e terzo: l'interesse dell'uno va contro l'interesse dell'altro.
Aggiungasi che in condominio le norme in materia di gestione delle cose, impianti e servizi comuni seguono i principi della maggioranza, mentre la disposizione di diritti è regolata dalle norme del negozio.
Le prime, sia con riferimento al quorum costitutivo che al quorum deliberativo, non sono derogabili, ai sensi dell'art. 1138, co. 4 c.c.
Dunque, non si può ammettere una delibera assunta con maggioranze inferiori a quelle di legge.
Inoltre, prosegue la sentenza, il quorum deliberativo e quello costitutivo sono determinati sia con riferimento al valore reale che con riferimento al valore personale.
E nessuna norma prevede ai fini del conteggio la esclusione di alcuni condòmini e dei relativi millesimi.
La ragione dell'inderogabilità delle maggioranze è quello della protezione dei diritti dei singoli condòmini; conclusioni diverse porterebbero a consentire alla minoranza di deliberare aggirando le norme sulle maggioranze e dunque in violazione del detto equilibrio stabilito dalla legge.
D'altronde, se la maggioranza non riesce a deliberare, il partecipante può rivolgersi all'autorità giudiziaria ai sensi dell'art. 1105 c.c., applicabile al condominio in virtù del rinvio operato dall'art. 1139 c.c.
La sentenza del 2002, pur ammettendo l'applicazione analogica dell'art. 2373 c.c. dove prevede il divieto di esercitare il diritto di voto al condòmino in potenziale conflitto di interessi, esclude invece che possa applicarsi l'art. 2373 c.c., co. 4 al condominio per analogia e conclude, invece, che le norme in materia di maggioranza in condominio, disciplina peculiare, sono inderogabili e che laddove non si formi la maggioranza si può ricorrere all'autorità giudiziaria.
La sentenza n. 19131/2015 premette che deve ritenersi applicabile al condominio la normativa in materia societaria relativa al computo della maggioranza in caso di conflitto di interessi, con conseguente esclusione del diritto di voto per il condòmino portatore di interessi propri in potenziale conflitto di interessi con quelli del condominio: ciò perché anche se le norme, anche se non riconoscono al condominio personalità giuridica, purtuttavia gli attribuiscono
potestà e poteri di carattere sostanziale e processuale, desumibili dalla disciplina della sua struttura e dai suoi organi (Cass. 19131/2015);
menziona Cass. n. 11254 del 1997 e Cass. n. 270 del 1976.
Con la sentenza n. 19131/2015 la Corte di Cassazione si riporta poi al precedente del 2002, aggiungendo che l'attuale versione dell'art. 2373 c.c. - operata ai sensi del D.Lgs. 6/2003 successivamente alla sentenza del 2002 - prevede oggi che
la deliberazione approvata con il voto determinante di coloro che abbiano, per conto proprio o di terzi, un interesse in conflitto con quello della società è impugnabile a norma dell'articolo 2377 qualora possa recarle danno (v. co. 1)
prevede poi che
gli amministratori non possono votare nelle deliberazioni riguardanti la loro responsabilità.
I componenti del consiglio di gestione non possono votare nelle deliberazioni riguardanti la nomina, la revoca o la responsabilità dei consiglieri di sorveglianza(v. co. 2).
Infine, che non contiene più quel distinguo tra quorum costitutivo e quorum deliberativo.
La riforma del condominio nulla ha aggiunto in materia di conflitto di interessi, rinforzando così quell'orientamento giurisprudenziale che appunto negava per il condominio il distinguo tra quorum costitutivo e quorum deliberativo.
Peraltro, la sentenza n. 19131 osserva che dal 2002 non si sono registrati precedenti contrari alla sentenza n. 1201.
La sentenza 1853/2018 interviene invece, per quanto qui interessa, su un ulteriore aspetto cui già aveva accennato quella del 2015: al condominio le norme dell'art. 2373 c.c. si applicano.
La delibera, dunque, è invalida se ha concorso alla formazione della maggioranza il voto del soggetto in conflitto di interessi e se la stessa delibera sia dannosa, anche solo potenzialmente, degli interessi del condominio.
Infatti, si afferma:
Il vizio della deliberazione approvata con il voto decisivo dei condomini in conflitto ricorre, in particolare, quando la stessa sia diretta al soddisfacimento di interessi extracondominiali, ovvero di esigenze lesive dell'interesse condominiale all'utilizzazione, al godimento ed alla gestione delle parti comuni dell'edificio (Cass. 1853/2018).
Ad ogni modo, ribadisce la Corte che il sindacato del giudice deve fermarsi a valutare la legittimità e non addentrarsi nella valutazione del merito, dunque al controllo sulla discrezionalità dell'assemblea; la Corte conclude dunque sul punto affermando che
quando la decisione dell'assemblea sia deviata dal suo modo di essere, perché viene formata con il voto determinante di partecipanti ispirati da finalità extracondominiali, al giudice non può quindi chiedersi comunque di controllare l'opportunità o la convenienza della soluzione adottata dal collegio, quanto, piuttosto, di stabilire che essa non costituisca il risultato del legittimo esercizio del potere discrezionale dell'organo deliberante (cfr. Cass. Sez. 6 2, 21/02/2014, n. 4216; Cass. Sez. 2, 14/10/2008, n. 25128) (Cass. 1853/2018).
|
||