|
Spesso nella stipula di un compromesso di compravendita di un immobile, che sia terreno o fabbricato, il venditore riceve dall'acquirente una somma di denaro a titolo di caparra.
Tale somma, a seconda dei casi, potrà essere oggetto di ritenzione da parte del venditore stesso o di successiva restituzione.
Altre volte può acquisire la funzione di acconto sul prezzo di acquisto.
Stiamo parlando della c.d. caparra confirmatoria disciplinata dall'art. 1385 del codice civile ai sensi del quale espressamente si prevede che se al momento della conclusione del contratto una parte dà all'altra, a titolo di caparra, una somma di danaro o una quantità di altre cose fungibili, la caparra, in caso di adempimento, deve essere restituita o imputata alla prestazione dovuta.
Se la parte che ha dato la caparra è inadempiente, l'altra può recedere dal contratto, ritenendo la caparra; se inadempiente è invece la parte che l'ha ricevuta, l'altra può recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra.
Se però la parte che non è inadempiente preferisce domandare l'esecuzione o la risoluzione del contratto, il risarcimento del danno è regolato dalle norme generali.
La sua funzione, dunque, è quella di tutelare le parti della compravendita e maggiormente il veditore e va tenuta distinta dalla caparra c.d. penitenziale prevista dal successivo art. 1386 del medesimo c.c. a norma del quale se nel contratto è stipulato il diritto di recesso per una o per entrambe le parti, la caparra ha la sola funzione di corrispettivo del recesso.
In questo caso, il recedente perde la caparra data o deve restituire il doppio di quella che ha ricevuta.
Nell'ambito della compravendita, dunque, la caparra confirmatoria ha una finalità risarcitoria del danno che emerge dalla mancata conclusione del contratto dopo il c.d. compromesso.
Come tale essa non costituisce un corrispettivo per il venditore che la trattiene e, quindi, non rientra nel campo di applicazione dell'IVA ai sensi degli art. 2 e 3 del DPR n. 633 del 1972 (c.d. decreto IVA).
Nell'ipotesi, invece, di regolare adempimento del contratto preliminare di acquisto, la caparra è imputata sul prezzo del bene oggetto del contratto definitivo, assoggettabile a Iva, andando a incidere sulla relativa base imponibile e, prima ancora, a integrare il presupposto impositivo dell'imposta medesima.
Dello stesso avviso è stata anche la Corte di Cassazione nell'Ordinanza n. 10306 del 20 maggio 2015, dove i giudici hanno osservato che le pattuizioni di caparre, difatti, sono contratti autonomi, in tal maniera distinguendosi dai versamenti di acconti, che costituiscono soltanto anticipazioni del prezzo e, quindi, adempimenti parziali anticipati delle future cessioni, rilevanti ai fini del suddetto presupposto d'imposizione.
L'inadempimento dell'acquirente alla conclusione del contratto definitivo propizia il trattenimento della caparra in seno al venditore, che serve, si è visto, a risarcire il promittente venditore stesso.
Per la Suprema Corte, un tale risarcimento non costituisce il corrispettivo di una prestazione e, per conseguenza, non fa parte della base imponibile dell'IVA.
D'altronde, si specifica che il pagamento di somme di denaro (o la dazione di cose fungibili), eseguito a titolo di caparra confirmatoria di un contratto di compravendita di bene immobile, è oggetto di fatturazione solo nella misura in cui tali somme (o cose fungibili) siano destinate ad anticipazione del prezzo per l'acquisto del bene, per volontà delle parti.
Anche i giudici, dunque, hanno affermato in tale sede il principio generale in base al quale il versamento di caparre confirmatorie a corredo di contratti preliminari di compravendite di immobili, rimasti poi inadempiuti, non determina l'insorgenza del presupposto impositivo dell'imposta sul valore aggiunto.
Sotto l'aspetto reddituale, la giurisprudenza se ne è occupata nella sentenza n. 11307 del 31 maggio 2016 della Corte di Cassazione, sezione tributaria in cui giudici hanno ritenuto che l'inquadramento della clausola penale rientra pienamente nel disposto dell'art. 6, comma 2, del TUIR.
Secondo quest'ultimo sono considerati redditi della stessa categoria di quelli perduti le indennità conseguite a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di diritti, concordando la dottrina nell'affermare che, in caso di inadempimento dell'obbligazione principale, la rilevanza dell'imposizione diretta della corresponsione della penale ha per base la visione civilistica della fattispecie come essenzialmente risarcitoria.
In questa prospettiva – hanno proseguito i giudici - in seno all'incremento patrimoniale che si verifica a vantaggio della parte non inadempiente, con l'introito della penale, sono state individuate, ai fini tributari, una componente risarcitoria della perdita subita e una componente risarcitoria del mancato guadagno; quest'ultima è assimilata a reddito, e quindi assoggettata ad imposizione diretta, in quanto surrogatoria del mancato reddito a causa dell'inadempimento dell'altro contraente.
Per l'individuazione di tali componenti all'interno della prestazione risarcitoria si è fatto ricorso al criterio riferito all'attitudine a produrre reddito della prestazione principale rimasta ineseguita.
In caso affermativo, l'introito della penale viene a sua volta considerato reddito per la parte afferente a tale mancato reddito.
Ne consegue che la penale è assoggettabile a imposizionediretta, in quanto la prestazione principale rimasta ineseguita (cessione dell'immobile) avrebbe costituito reddito ai sensi dell'art. 67, comma 1, TUIR. La Corte ha, quindi, condiviso le asserzioni dell'Ufficio dell'Agenzia delle Entrate circa la caparra incamerata dal venditore costituendo la stessa il risarcimento della perdita di proventi che, per loro natura e in base a quanto sopra considerato avrebbero generato redditi tassabili per un soggetto privato, con il conseguimento di una plusvalenza ai sensi del menzionato art. 67 del TUIR.
Tuttavia nel lontano 1982, l'Amministrazione finanziaria (nella Risoluzione n. 8/1854) aveva osservato diversamente, ritenendo che la ritenzione della caparra non configurasse, ai fini fiscali, come un incremento di ricchezza, derivante dall'impiego di capitale, dal godimento di un bene o, più genericamente, dall'attività umana, che costituisce - secondo la più accreditata dottrina - l'elemento essenziale del reddito inteso in senso tecnico, passibile d'imposta.
|
||