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La questione più semplice è senza dubbio quella relativa all'abitazione nell'ambito del matrimonio, rapporto giuridico dettagliatamente disciplinato dalla legge.
In tale disciplina i riferimenti all'abitare sono molteplici: l'art.143 c.c., per quanto ci interessa in questa sede, prevede, tra i doveri nascenti dal matrimonio, quello di coabitare, nonché quello di assistersi reciprocamente (sia sotto l'aspetto materiale che morale).
L'abbandono del domicilio domestico e la violazione degli obblighi di assistenza configurano addirittura un illecito penale, previsto dall'art. 570 c.p., e punito con la reclusione fino a un anno o la multa da 103 a 1032,00 euro.
Mentre, l'art. 144 c.c. prevede che i coniugi fissano la residenza della famiglia.
Infine l'art. 146 c.c. prevede che l'allontamento senza giusta causa dalla residenza famigliare ed il rifiuto di tornarvi, fanno venire meno il diritto all'assistenza di cui all'art. 143 c.c.
Con la separazione e il divorzio le cose cambiano, ma non del tutto.
Infatti, la proposizione della domanda di separazione, di annullamento, di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio fa venire meno il dovere di coabitare (v. art. 146 c.c.), tanto è vero che la domanda di separazione giudiziale è proponibile proprio se diviene intollerabile la prosecuzione della convivenza (v. art. 151 c.c.), ma permangono alcuni doveri.
Quanto all'abitazione, se vi sono figli (nei cui confronti il genitore è sempre obbligato), uno dei due lascerà che sia l'altro ad abitare la casa familiare insieme con i figli.
Per la giurisprudenza nettamente prevalente, l'assegnazione della casa familiare è legata alla protezione del figlio, soprattutto se minore e non può esser disposta in assenza di prole.
Si ritiene infatti che l'assegnazione non valga come aiuto economico al coniuge più debole, ma che abbia il fine di conservare il più possibile il mondo in cui il minore fino a quel momento è cresciuto.
L'obbligo di lasciare all'altro la casa familiare può perdurare anche nel divorzio.
Infatti, l'art.6, L. n. 898/1970 sul divorzio prevede che: L'abitazione nella casa familiare spetta di preferenza al genitore cui vengono affidati i figli o con il quale i figli convivono oltre la maggiore età. In ogni caso ai fini dell'assegnazione il giudice dovrà valutare le condizioni economiche dei coniugi e le ragioni della decisione e favorire il coniuge più debole.
Cosa accade al momento del decesso di uno dei due coniugi?
Premettiamo che le norme sulla cosiddetta successione necessaria sono quelle che riservano determinate quote ad alcuni soggetti, a prescindere dalle disposizioni testamentarie, se ci sono, oppure in assenza di esse o se queste non sono complete o ancorase sono nulle, annullate o rifiutate con rinuncia, a prescindere dalle norme che lo stesso codice prevede con la successione legittima (v. artt. 565 e ss. c.c.).
Quanto al nostro argomento, nell'ambito di tali norme, appunto inderogabili, in caso di decesso di uno dei due coniugi, l'art. 540, co.2 c.c. riserva in favore del coniuge superstite sia il diritto di abitazione della casa adibita a residenza familiare che un diritto d'uso della mobilia se di proprietà del defunto o comuni.
Il diritto di abitazione, per quanto qui interessa, è disciplinato dall'art. 1022 e ss. c.c.; si tratta di un diritto reale di godimento di un abitazione che attribuisce al titolare di abitarla limitatamente ai bisogni suoi e della sua famiglia.
Tale diritto può sorgere in seguito a contratto, testamento, legge o usucapione.
Lo stesso secondo comma dell'art. 540 c.c., poi, stabilisce che detti diritti gravano sulla porzione disponibile e, qualora questa non sia sufficiente, per il rimanente sulla quota di riserva del coniuge ed eventualmente sulla quota riservata ai figli.
La porzione disponibile è quella che rimane tolte le quote di riserva o indisponibili, cioè quelle imposte dalla legge con la cosiddetta successione necessaria.
Sempre nell'ambito delle norme sulla successione necessaria, dispone poi l'art. 548 c.c. che Il coniuge cui non è stata addebitata la separazione con sentenza passata in giudicato ... ha gli stessi diritti successori del coniuge non separato.
Previsione assente in caso di addebito della separazione; infatti, l'art. 548 c.c. prevede poi che il coniuge cui è stata addebitata la separazione con sentenza passata in giudicato ha diritto soltanto ad un assegno vitalizio se al momento dell'apertura della successione godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto...
La medesima disposizione si applica nel caso in cui la separazione sia stata addebitata ad entrambi i coniugi.
Similmente, nella successione legittima l'art. 585 c.c. prevede che Il coniuge cui non è stata addebitata la separazione con sentenza passata in giudicato ha gli stessi diritti successori del coniuge non separato. Nel caso in cui al coniuge sia stata addebitata la separazione con sentenza passata in giudicato, si applicano le disposizioni del secondo comma dell'articolo 548.
Domanda: la disposizione di cui all'art. 548, co.1 c.c. comporta anche l'estensione al coniuge superstite separato senza addebito del diritto di abitazione di cui all'art. 540 c.c.?
La risposta la fornisce la giurisprudenza: è stato ad esempio stabilito (e tale sembra l'orientamento prevalente) che se la convivenza è cessata al momento della morte di uno dei due, non può esservi casa familiare e dunque non può esservi per l'altro il diritto ex art. 540, co.2c.c. (v. Cass. n. 13407/2014).
D'altro canto si ritiene che il diritto si giustifica non per esigenze materiali legate all'alloggio, ma per esigenze morali legate alla conservazione della memoria di quanto vissuto insieme.
È stato in proposito stabilito dalla Corte Costituzionale (sent. n. 310/1989) che gli interessi che la norma mira a soddisfare e cioè la memoria del coniuge scomparso, il mantenimento del tenore di vita, delle relazioni sociali e degli status symbols goduti durante il matrimonio, comportano l'inapplicabilità, tra l'altro, dell'art. 1022 cod. civ., che regola l'ampiezza del diritto di abitazione in rapporto al bisogno dell'abitatore.
Nel caso della convivenza, in questo come in altri ambiti, sono rare le disposizioni di legge che attribuiscono al convivente qualche diritto specifico.
Quanto alla successione, la sentenza appena citata della Corte Costituzionale rigettò allora (per quanto ci riguarda) l'ammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 540 c.c. che prevedeva il diritto di abitazione per il coniuge e non per il convivente affermando che l'operazione che le veniva richiesta, di inserire il convivente tra i successibili, non rientrava nelle sue competenze, ma in quelle del Legislatore.
La giurisprudenza ha riconosciuto in qualche caso l'acquisizione del diritto di abitazione per usucapione del bene del convivente defunto, in seguito a possesso ventennale del bene (v. a es. Trib. Saluzzo 26/03/2009).
In altri casi però tale acquisizione è stata invece negata (ad es. in Cass. n. 9786/2012).
Identica questione si pone anche in assenza di decesso, nel caso ad esempio di estromissione dall'immobile da parte di uno dei due verso l'altro, o da parte di un terzo; in taluni casi è stata riconosciuta la tutela contro lo spossessamento (v. ad es. Cass. n. 7214/2013 e Cass. n. 7 del 2014).
Se l'immobile è in locazione trova applicazione l'art. 6, L. n. 392/1978.
Tale articolo inizialmente prevedeva: In caso di morte del conduttore, gli succedono nel contratto il coniuge, gli eredi ed i parenti ed affini con lui abitualmente conviventi.
In caso di separazione giudiziale, di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili dello stesso, nel contratto di locazione succede al conduttore l'altro coniuge, se il diritto di abitare nella casa familiare sia stato attribuito dal giudice a quest'ultimo.
In caso di separazione consensuale o di nullità matrimoniale al conduttore succede l'altro coniuge se tra i due si sia così convenuto.
Con la sentenza n. 404 del 1988 la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale detto articolo in tali termini:
Dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 6, primo comma, della legge 27 luglio 1978, n. 392 (Disciplina delle locazioni di immobili urbani), nella parte in cui non prevede tra i successibili nella titolarità del contratto di locazione, in caso di morte del conduttore, il convivente more uxorio;
Dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 6, terzo comma, della legge 27 luglio 1978, n. 392, nella parte in cui non prevede che il coniuge separato di fatto succeda al conduttore, se tra i due si sia così convenuto;
Dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 6, della legge 27 luglio 1978, n. 392, nella parte in cui non prevede la successione nel contratto di locazione al conduttore che abbia cessato la convivenza, a favore del già convivente quando vi sia prole naturale.
Viceversa, la questione di legittimità costituzionale relativa alla mancata previsione della successione nel contratto da parte del convivente rimasto detentore dell'immobile, ma in assenza di prole - in caso di cessazione della convivenza - non è stata fino ad oggi mai accolta.
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