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Per molti, la sola idea del giardino evoca l'immagine di un berbecue in azione, così come l'idea delle cene all'aperto trascorse con gli amici, che siano tanti o pochi intimi, a degustare un buon arrosto rappresenta per molti l'immagine più compiuta della vacanza.
Spesso si acquista la casa in funzione del giardino, proprio immaginando momenti di grande relax e convivialità, con un barbecue sullo sfondo. Ma, a cotanto piacere potrebbe corrispondere da qualche parte altrettanto dispiacere?
Sì, precisamente da qualche parte piuttosto vicina al barbecue in attività.
Come sappiamo i litigi tra vicini dovuti alle immissioni più varie sono molto diffusi, e l'odore dell'arrosto non acquieta, anzi, forse innervosisce ulteriormente gli animi.
Non a caso il nostro codice civile contiene una norma apposita a proposito di distanze di manufatti come forni e camini: si tratta dell'art. 890 c.c.
Certo, raramente in passato la norma sarà stata richiamata davanti a un giudice per esigere tutela davanti alle offese di un barbecue, come è invece accaduto nel giudizio deciso con la sentenza(e con altre recenti) n. 15246, pubblicata il 20 giugno scorso, che qui tratteremo.
Ma anche questo forse è un segno dei tempi che cambiano.
Al di là dell'ironia che sorge spontanea in chi legge, sul tema, un provvedimento giudiziale della Suprema Corte - che dunque ha richiesto l'utilizzo di tante risorse al solo fine di risolvere una contesa per un barbecue un po' troppo vicino al confine - sappiamo oggi che anche i fumi del barbecue oltre che essere fastidiosi, sono nocivi alla salute.
Ed infatti l'attore, colui che ha agito in giudizio contro il barbecue, nella sentenza citata si è visto vittorioso.
Nell'auspicio che casi giudiziali riguardanti un barbecue siano il minor numero possibile e che, semplicemente, utilizzatori e vicini di casa giungano a miti consigli ricorrendo al buon senso nella gestione nei propri rapporti, è giusto sapere, però, che se la questione dovesse finire davanti ad un giudice potrebbe essere decisa secondo le argomentazioni della sentenza qui in commento.
Dal momento che il buon senso non è un'ovvietà, la legge prevede norme volte a risolvere potenziali conflitti tra vicini di casa.
Tra tali norme abbiamo anche quelle sulle distanze, tra cui in particolare, per ciò che interessa a noi oggi, quelle che riguardano le distanze di forni e camini.
Come anticipato, la norma di riferimento è contenuta nell'art. 890 c.c., secondo cui
Chi presso il confine, anche se su questo si trova un muro divisorio, vuole fabbricare forni, camini, magazzini di sale, stalle e simili, o vuol collocare materie umide o esplodenti o in altro modo nocive, ovvero impiantare macchinari, per i quali può sorgere pericolo di danni, deve osservare le distanze stabilite dai regolamenti, e in mancanza, quelle necessarie a preservare i fondi vicini da ogni danno alla solidità, salubrità e sicurezza art. 890 c.c.
L'art. 890, dunque, prevede un'ordine di criteri: innanzitutto bisogna rispettare le distanze previste dai regolamenti; in assenza di questi, si tratta di fonti normative che possono essere locali, bisogna rispettare le distanze necessarie a evitare i danni ai vicini; in particolare, la norma mira a tutelare
solidità, salubrità e sicurezza art. 890 c.c.
Analizziamo più da vicino il testo normativo e le interpretazioni operate dalla giurisprudenza, con particolare riferimento alla più recente sentenza, la n. 15246, già citata.
Dunque, se i regolamenti esistono, non ci sono dubbi: bisogna rispettare quanto da questi previsto.
In tali casi, poi, la pericolosità è pienamente presunta: abbiamo quella che i giuristi chiamano presunzione assoluta, cioè, non è consentito alle parti in contesa di stare a disquisire sulla pericolosità del manufatto e va rispettato quanto prescritto dall'atto normativo.
In assenza di regolamenti cosa si fa?
Le sentenze sembrano attestate nell'affermare che in tali casi abbiamo una presunzione di pericolosità. Presunta sì, ma in maniera relativa; è data cioè la possibilità alla parte interessata al mantenimento del manufatto di dimostrare in vari modi che la pericolosità non sussiste.
Sul punto si è espressa la sentenza citata, la n. 15246 del 2017, (ma anche, ad es. la n. 22389 del 2009).
Certo, ciò vale in astratto: se nel caso concreto la pericolosità è indubbia, rimane esclusa la possibilità di dimostrare il contrario.
Ad esempio, vi sono casi in cui la pericolosità è incontestabile per evidenze scientifiche; in certi casi poi è addirittura notoria, cioè patrimonio di conoscenza dell'uomo comune e dunque non c'è modo di dimostrare il contrario.
In tali casi il giudice, qualora si finisse in causa, non avrebbe nemmeno la necessità di approfondire la questione affidando la ricerca a un esperto: potendo infatti avvalersi delle cosiddette
nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza art. 115 c.p.c.
risolverebbe la questione da sè.
In tal senso si è orientata la recente sentenza, già citata, secondo cui è pacifico che le emissioni da fumo di legna siano nocive per la salute.
Nel caso in esame, sia la Corte di Appello che la Corte di Cassazione rilevano che rientra ormai nella comune esperienza che dalla bruciatura del carbone di legna si sviluppa una sostanza cancerogena; nocività riportata dall'Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro, che ha inserito il fumo di legna tra i possibili agenti cancerogeni, ma anche dai quotidiani a larga tiratura.
In tali casi, dunque, secondo la sentenza citata, non è necessario accertare la pericolosità del manufatto. Pericolosità che, si prosegue, deve riguardare il pericolo che vi sia danno e non la sussistenza attuale di danno. Dunque non è necessario valutarne la pericolosità mettendolo in funzione.
La distanza corretta deve essere, inoltre, sempre secondo la sentenza n. 15246, rispetto all'immobile nel complesso e non, come eccepito dal ricorrente, rispetto alle finestre.
La sentenza in commento dunque rigetta il ricorso proposto dal ricorrente (interessato a mantenere il barbecue), confermando la sentenza di secondo grado (che aveva definito il barbecue un forno, dunque rientrante nell'ipotesi ex art. 890 c.c.), la quale già aveva confermato quella di primo grado.
Tutti i giudici coinvolti hanno dunque sentenziato nello stesso modo.
Chiariamo che la medesima conclusione vale per i barbecue fissi e per quelli amovibili: nel caso di specie il barbecue non era saldato al suolo, e la circostanza viene rilevata dal ricorrente; ma la sentenza non prende in considerazione tale aspetto, lasciando intendere che non sia rilevante.
Ai sensi dell'art. 890 c.c. non esiste una distanza valevole per i barbecue di tutta Italia.
Se la materia è disciplinata dai regolamenti locali - dunque la cosa varia da luogo – bisognerà rispettare quanto da essi previsto, distanze comprese.
In assenza di disciplina regolamentare, data la chiara pericolosità del fumo a legna, una distanza va comunque rispettata ed è quella resa necessaria dalla tutela di
solidità, salubrità e sicurezza
.
In assenza di accordo tra le parti, sicuramente da preferire a un giudizio di ben tre gradi potenziali, sarà il giudice, tramite il consulente tecnico, a individuare la distanza dovuta.
Nel caso di specie, il consulente nominato dalla Corte d'Appello aveva indicato una distanza di 5-6 metri, distanza che la stessa corte d'appello aveva ritenuto modesta.
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