Nell'appalto l'interesse giuridicamente rilevante alla realizzazione del progetto è solo del committente. Di conseguenza egli può sempre recedere, salvo indennizzo.
Appalto
Il contratto di appalto è definito dal codice civile come il contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un'opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro (art. 1655 c.c.).
In generale la fine anzitempo ed immotivata di un contratto è ammessa dal nostro codice solo in caso di mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge (art. 1372 c.c.).
Il mutuo consenso è dato da un contratto sostitutivo del precedente e postula l'accordo di entrambe le parti. D'altronde, non potrebbe essere altrimenti in materia di contratti, per i quali l'incontro delle volontà è elemento essenziale (art. 1325 c.c.).
Il recesso è invece un atto unilaterale esercitabile - a parte i casi in cui è espressamente previsto dalla legge e a parte qualche eccezionale deciso giuisprudenziale (v. ad es. Cass. 3296/2002) - solo ove pattuito a contratto.
Un atto è unilaterale quando, al contrario, è sufficiente la volontà di un solo soggetto perché esso sia valido, anche se diviene efficace solo quando giunge a conoscenza del destinatario (art. 1334 c.c.).
Le norme generali sul recesso sono contenute nell'art. 1373 c.c. (intitolato appunto recesso unilaterale), per il quale se a una delle parti è attribuita la facoltà di recedere dal contratto, tale facoltà può essere esercitata fino a che il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione; in deroga alla norma generale ora esposta, nei contratti a esecuzione continuata o periodica, lo stessso art. 1373 prevede che tale facoltà può essere esercitata anche successivamente, ma il recesso non ha effetto per le prestazioni già eseguite o in corso di esecuzione.
Recesso e appalto
Nel caso dell'appalto, è la stessa legge, all'art. 1671, c.c. a prevedere la possibilità di recedere; tale possibilità è riconosciuta dalla legge solo in capo al committente. La differenza tra il recesso di cui all'art. 1373 e quello del committente di cui all'art. 1671 sta nel fatto che il primo deve risultare a contratto, mentre il secondo opera per previsione di legge (Cass. 4750/1991). Il diritto di recesso in capo all'appaltatore per essere valevole dovrebbe quindi essere previsto nel contratto e in quel caso sarebbe regolato dalla norma generale ex art. 1373 e non da quella ex art. 1671, dedicata solo al committente, norma quest'ultima, comunque derogabile.
Il recesso del committente può essere esercitato anche senza motivi: esso infatti può avvenire per qualsiasi causa, (tra tante, 9645/2011; 11542/2003) il cui accertamento non è neppure richiesto ai fini della legittimità del recesso.
Secondo la giurisprudenza consolidata della Corte di Legittimità, l'art. 1671 c.c. accorda al committente il diritto di recesso, che può essere esercitato senza dover dare giustificazioni (ossia senza spiegare all'appaltatore le ragioni sul quale è fondato) ed in qualsiasi momento durante l'esecuzione del contratto di appalto (così detto recesso ad nutum); la norma, viceversa, non riconosce all'appaltatore il diritto a continuare l'opera ma solamente quello ad ottenere l'indennizzo in essa specificato (cioè spese sostenute e mancato guadagno.
In questo contesto, si legge in più d'una sentenza, poiché il contratto si scioglie per iniziativa unilaterale del committente – anche se la ragione del recesso possa trovare fondamento nella sfiducia verso l'appaltatore per fatti d'inadempimento - non è necessaria alcuna indagine sull'importanza di detto inadempimento e/o sulla ricorrenza di una giusta causa di recesso (Cass. nn. 9645/2011, 10400/08, 11642/03).
Ma perché questa posizione di favore verso il committente? Di recente (ma anche in passato) la Cassazione ha risposto guardando all'interesse sotteso al contratto, che è quello finalizzato alla realizzazione dell'opera ed alla prestazione del servizio in favore del committente, non esistendo un diritto dell'appaltatore al completamento degli stessi (v. Cass. 21595/14, ma anche 11542/2003 e altre).
Le parti possono comunque convenire diversamente e ad esempio prevedere che il recesso sia esercitabile solo in caso di inadempienze (Cass. 17924/2006), dal momento che l'art. 1671 è una norma contrattualmente derogabile.
Lo squilibrio nel rapporto dato dall'attribuzione del diritto di recesso al solo committente è compensato dalla medesima norma con l'obbligo, per lo stesso, di tenere indenne l'appaltatore da perdite che la legge indica: spese sostenute, lavori eseguiti e mancato guadagno; trattasi comunque di indennizzo e non di risarcimento del danno, derivando il pregiudizio da una attività lecita, in quanto il recesso è consentito dalla legge, mentre il risarcimento del danno deriva solo da un'attività illecita.
Ecco perché la legge non prevede un'approfondita analisi delle posizioni: cioè, salvo diverse pattuizioni, il committente potrà recedere senza dare spiegazioni, ma dovrà indennizzare l'appaltatore delle voci indennizzabili.
Il rapporto si chiude senza entrare nel merito dell'inadempimento. Viceversa, se il committente intende chiudere il rapporto addebitando la causa all'appaltatore e dunque non vuole pagare alcun indennizzo, ma anzi, eventualmente, vuole essere lui stesso risarcito, dovrà dare prova di quanto afferma e chiedere dunque il risarcimento del danno patito, senza eventualmente dovere pagare l'indennizzo ex art. 1671 c.c.