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Come noto, è stata approvata in via definitiva la legge sulle unioni civili e le coppie di fatto.
La Legge, pubblicata lo scorso 21 maggio sulla Gazzetta Ufficiale, è la n. 76 del 2016.
Essa entrerà in vigore dopo quindici giorni dalla pubblicazione (v. art. 73, Cost.).
Nel presente articolo vedremo dove nella nuova legge assume maggior rilievo giuridico il riferimento, all'interno del rapporto, all'abitazione o alla residenza.
Non potrà che trattarsi di accenni; peraltro, le norme vanno comunque interpretate alla luce di quanto è disposto dall'ordinamento giuridico nel complesso e considerando la fattispecie concreta in tutti i suoi aspetti.
Dunque, non tratteremo tutte le norme, ma solo quelle (senza pretesa di esaustitività) rilevanti per il nostro discorso. Ove nel testo sia indicato un articolo senza la specificazione del testo normativo dovrà farsi riferimento alla legge in commento.
Partiamo dunque dalla definizione di coppia di fatto ai fini della legge.
L'art. 36 chiarisce che le norme della legge sulle convivenze di affatto si applicano a quelle coppie formate da «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un'unione civile».
Ma, quando possiamo ritenere tale unione come stabile e dunque applicarvi le norme che indicheremo a breve?
Il successivo art. 37 fornisce la risposta a tale domanda: infatti sancisce che «per l'accertamento della stabile convivenza» si deve fare riferimento alla «dichiarazione anagrafica» di cui all'art. 4, e alla lettera b, co.1, art. 13, D.P.R. n. 223/1989.
L'art. 4, co.1, citato prevede che «Agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti e aventi dimora abituale nello stesso comune».
La dichiarazione anagrafica che va resa, nel nostro caso riguarda la «b) costituzione di nuova famiglia o di nuova convivenza, ovvero mutamenti intervenuti nella composizione della famiglia o della convivenza» (v. art. 13, co.1, lett. b, D.P.R. n. 223/1989).
L'art. 38 estende ai conviventi di fatto gli stessi diritti riservati al coniuge dall'ordinamento penitenziario.
Mentre, l'art. 39 prevede, in caso di malattia e di ricovero, la parificazione dei conviventi ai coniugi e ai familiari nell'applicazione delle regole organizzative «delle strutture ospedaliere o di assistenza pubbliche, private o convenzionate, previste per i coniugi e i familiari», quanto al diritto reciproco di visita e di assistenza e di richiedere informazioni personali.
Menzioniamo le norme di cui agli artt. 38 e 39 perché, sebbene non direttamente collegate all'abitazione, sono legate però (anche) alla possibilità per i conviventi di accudirsi reciprocamente come fanno a casa propria, tutti i giorni.
Nel prevedere le disposizioni in merito alla permanenza del convivente superstite nell'abitazione del convivente deceduto e proprietario della casa familiare, l'art. 42, fa innanzitutto salva l'applicazione dell'art. 337-sexies c.c. in materia di «assegnazione della casa familiare e prescrizioni in tema di residenza».
Tale norma è inserita nel capo (capo II, del titolo IX,del libero primo del codice civile) dedicato «all'esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ovvero all'esito di procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio».
L'art. 337-sexies c.c. stabilisce che «Il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell'interesse dei figli.
Dell'assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l'eventuale titolo di proprietà. Il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso che l'assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio.
Il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili a terzi ai sensi dell'articolo 2643» (co.1).
L'art. 2643 c.c. è appunto intitolato «Atti soggetti a trascrizione».
Quanto alla residenza, l'art. 337-sexies c.c. stabilisce che «In presenza di figli minori, ciascuno dei genitori è obbligato a comunicare all'altro, entro il termine perentorio di trenta giorni, l'avvenuto cambiamento di residenza o di domicilio.
La mancata comunicazione obbliga al risarcimento del danno eventualmente verificatosi a carico del coniuge o dei figli per la difficoltà di reperire il soggetto» (co.2).
Ebbene, fatta eccezione per quanto previsto dunque dall'art. 337-sexies c.c., lo stesso art. 42 stabilisce che in caso di decesso del convivente «proprietario della casa di comune residenza», l'altro può continuare ad abitarvi per un periodo pari a due anni, oppure pari alla durata della convivenza, se maggiore dei due anni, e comunque non oltre i cinque anni. Il periodo minimo sale a tre anni se nella casa abitano figli minori o figli disabili del convivente superstite.
Tale diritto viene meno se il convivente «cessi di abitare stabilmente nella casa di comune residenza o in caso di matrimonio, di unione civile di nuova convivenza di fatto» (v. art. 43).
A norma dell'art. 44, se il conduttore della casa familiare recede dal contratto di locazione, oppure decede, l'altro «ha facoltà di succedergli nel contratto».
L'art. 45 stabilisce invece che se «l'appartenenza ad un nucleo familiare» è prevista come «titolo o causa di preferenza nelle graduatorie per l'assegnazione di alloggi di edilizia popolare, di tale titolo o causa di preferenza possono godere, a parità di condizioni, i conviventi di fatto».
Sempre in considerazione del bene casa, menzioniamo anche, ad opera dell'art.46, l'introduzione dell'art. 230-ter c.c., il quale riconosce in sintesi «una partecipazione agli utili dell'impresa familiare e ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente» (eccetto il caso in cui esista un rapporto di società o di lavoro subordinato) (v. art. 230-ter c.c. e art. 46).
L'art. 47 aggiunge il convivente di fatto tra i soggetti di cui bisogna indicare i dati in caso di richiesta di interdizione e inabilitazione.
Viene infatti modificato l'art. 712 c.p.c. contenente la «forma della domanda» per il ricorso per l'interdizione o inabilitazione.
Il successivo art. 48 specifica poi che «il convivente di fatto può essere nominato tutore, curatore, o amministratore di sostegno, qualora l'altra parte sia dichiarata interdetta o inabilitata» o si verifichino i presupposti per la nomina dell'amministratore di sostegno (di cui all'art. 404 c.c.).
L'art. 50 prevede la possibilità per i conviventi di fatto di regolare i «rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune» con un contratto detto «di convivenza».
Il contratto deve essere redatto, modificato e risolto sempre «in forma scritta, a pena di nullità, per atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che ne attestano la conformità alle norme imperative o all'ordine pubblico» (v. art. 51).
Perché il contratto sia opponibile ai terzi, il professionista che «ha ricevuto l'atto in forma pubblica o che ne ha autenticato la sottoscrizione» deve trasmetterne copia entro dieci giorni al comune di residenza dei conviventi perché avvenga l'iscrizione all'anagrafe secondo gli artt. 5 e 7, D.P.R. n. 223/1989.
Secondo il citato art. 5 (alla cui lettura integrale si rimanda) «Agli effetti anagrafici per convivenza s'intende un insieme di persone normalmente coabitanti per motivi religiosi, di cura, di assistenza, militari, di pena e simili, aventi dimora abituale nello stesso comune» (co.1).
Mentre l'art. 7, DPR. n. 223/1989 riguarda le iscrizioni anagrafiche.
Tra gli elementi che il contratto «può» contenere, a norma dell'art. 53 della legge, vi sono, per quanto a noi più interessa: "l'indicazione della residenza" (lett.a), «il regime patrimoniale della comunione dei beni, di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile» (lett. c).
Il regime patrimoniale può sempre essere modificato con le modalità su indicate per la modifica del contratto (forma scritta etc.) (v. art. 54).
L'art. 57 tra le ipotesi di nullità del contratto indica la violazione dell'art. 36 della stessa legge: si tratta del caso in cui sono assenti le condizioni richiesta dalla legge perché il rapporto possa essere qualificato come una convivenza di fatto: l'assenza di tali condizioni rende nullo il contratto di convivenza, dunque anche, per quanto a noi qui interessa, l'assenza di una convivenza stabile.
Il contratto può essere risolto (v. art. 59), come anticipato, nelle modalità indicate dall'art. 51; in tal caso, se il contratto prevede il regime patrimoniale della comunione, la sua risoluzione comporta lo scioglimento della comunione, con applicazione, «in quanto compatibili» delle norme di cui alla sez. III, capo VI, tit. VI, libro primo, c.c., cioè le norme che regolano la comunione legale.
Resta comunque «la competenza del notaio per gli atti di trasferimento di diritti reali immobiliari comunque discendenti dal contratto di convivenza» (v. art. 60).
In caso di recesso unilaterale, il professionista che riceve o autentica l'atto deve inviarne copia all'altro convivente presso l'indirizzo indicato sul contratto.
Se la casa è nella disponbilità esclusiva del recedente la comunicazione deve contenere il termine di almeno 90 giorni per lasciare l'abitazione (v. art. 61).
Menzioniamo poi l'introduzione dell'art. 30-bis nella legge n. 218/1995, in materia di diritto internazionale privato.
Il testo del nuo articolo recita «1. Ai contratti di convivenza si applica la legge nazionale comune dei contraenti. Ai contraenti di diversa cittadinanza si applica la legge del luogo in cui la convivenza è prevalentemente localizzata.
2. Sono fatte salve le norme nazionali, europee ed internazionali che regolano il caso di cittadinanza plurima».
A norma dell'art. 65 il convivente di fatto rientra tra gli obbligati agli alimenti: nel caso di cessazione della convivenza è prevista la possibilità che il giudice stabilisca il diritto del convivente «gli alimenti qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento».
La durata dell'obbligo è stabilita in proporzione alla durata della convivenza e nella misura di cui all'art. 438, co.2, c.c. secondo cui gli alimenti «devono essere assegnati in proporzione del bisogno di chi li domanda e delle condizioni economiche di chi deve somministrarli.
Non devono tuttavia superare quanto sia necessario per la vita dell'alimentando, avuto però riguardo alla sua posizione sociale».
Nell'ordine degli obbligati (di cui all'art. 433 c.c.) il convivente viene inserito prima dei fratelli e delle sorelle (v. art. 65).
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