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Può accadere che in ragione della particolare conformazione dello stabile la compagine condominiale abbia a disposizione delle unità immobiliari (siano esse dei veri e propri appartamenti o dei semplici locali) di proprietà comune.
Un caso esplicito, ad esempio, è quello indicato nell'art. 1117 n. 2 c.c., allorquando si dice che sono di proprietà comune, salvo diversa disposizione del titolo (ossia dell'atto d'acquisto o del regolamento di condominio di origine contrattuale), i locali per la portineria e per l'alloggio del portiere, per la lavanderia, per il riscaldamento centrale, per gli stenditoi e per altri simili servizi in comune.
Tra gli altri simili servizi in comune, si pensi, tra le ipotesi più frequenti, ai locali destinati allo svolgimento delle assemblee condominiali.
La destinazione d'uso di tali unità immobiliari è impressa oltre che dalla indicazione contenuta negli atti di accatastamento, anche dalle deliberazioni assembleari in merito (art. 1117-ter c.c.) e dagli usi sostanziali posti in essere dagli interessati.
In assenza di indicazioni in merito, ai sensi dell'art. 1102, primo comma, c.c. ogni condomino può servirsi della cosa comune, purché la sua utilizzazione non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine ed entro tali limiti l'utilizzatore può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il migliore godimento della cosa.
Che cosa accade se ai fini di trarre profitto da un'unità immobiliare di proprietà comune si decide di cederla o di locarla?
Le norme dettate in materia di condominio negli edifici non si occupano direttamente di una simile evenienza.
Innanzitutto, quindi, è necessario volgere lo sguardo alle disposizioni dettate per la comunione in generale (applicabili al condominio in virtù del rinvio operato dall'art. 1139 c.c.).
Al riguardo la norma di riferimento è quella dettata dal terzo comma dell'art. 1108, terzo comma, c.c. secondo il quale: è necessario il consenso di tutti i partecipanti per gli atti di alienazione o di costituzione di diritti reali sul fondo comune e per le locazioni di durata superiore a nove anni.
Nel caso della cessione è intuibile la ratio normativa: per cedere una cosa che è di proprietà di qualcuno, è sempre necessario il consenso del diretto interessato e dato che il bene comune è di tutti i condòmini è intuibile che sia indispensabile il consenso di tutti quanti per operare la cessione.
Non solo per la cessione ma anche per la costituzione di un diritto reale di godimento (es. usufrutto) sarà obbligatorio l'accordo unanime.
Allo stesso modo la locazione ultranovennale, in ragione della notevole durata del vincolo contrattuale, prevede la necessità del consenso di tutti i comproprietari.
Che cosa accade, invece, se si vuole locare un bene condominiale?
Quali gli adempimenti necessari se esso ha una diversa destinazione d'uso rispetto a quella che avrebbe in ragione della locazione? Si pensi ai casi in cui si voglia affittare l'alloggio del portiere, andato in pensione, o un locale deposito che abbia i requisiti di legge per essere adibito a civile abitazione.
E per la deliberazione della locazione? Quali sono le maggioranze necessarie?
La Suprema Corte di Cassazione, prima dell'entrata in vigore della riforma, ha avuto modo di affermare che la locazione per uso abitativo dell'appartamentino condominiale in precedenza concesso ad un condomino per uso deposito non realizzava un mutamento di destinazione […] del bene (v. sentenze nn. 270 e 331 del 1976) ma soltanto una diversa utilizzazione che l'assemblea dei condomini poteva deliberare con la maggioranza semplice dell'art. 1136 - comma 2 c.c., ratificando, in mancanza, come nella specie è avvenuto, l'operato dell'amministratore (Cass. n. 8622/98).
La pronuncia degli ermellini, dunque, non considerava innovazione la diversa utilizzazione di un bene, tracciando nella sostanza una distinzione tra modificazione della destinazione d'uso e uso concreto differente rispetto a quella specifica destinazione.
Ad avviso di chi scrive la sentenza in esame si pone, attualmente, in potenziale contrasto con quanto specificamente disposto dall'art. 1117-ter c.c. in materia di modificazione delle destinazioni d'uso delle cose comuni. Se è vero che la soppressione del servizio di portierato potrebbe essere di per sè sufficiente a far venire meno il vincolo di destinazione dell'alloggio ad abitazione del portiere (fermo restando l'adempimento delle eventuali formalità relative alle trascrizioni presso i pubblici registri, per le quali è sempre necessario il consenso di tutti gli interessati), tale fatto non elimina la necessità di deliberazione del mutamento di destinazione d'uso nel caso in cui tale modificazione è condizione necessaria per poter, successivamente, addivenire alla stipula del contratto di locazione (come per il caso del deposito che può diventare abitazione).
Ciò chiarito, è utile domandarsi quali siano le maggioranze necessarie per addivenire alla deliberazione di un contratto di locazione di un bene immobile condominiale.
Al riguardo la giurisprudenza, quando è stata chiamata a pronunciarsi sull'argomento, ha affermato che la conclusione di un contratto di locazione di un bene immobile condominiale è atto di ordinaria amministrazione che può essere anche concluso dall'amministratore e poi ratificato dall'assemblea (cfr. Cass. 21 ottobre 1998 n. 10446).
Chiaramente l'assenza di ratifica rappresenta un problema che può portare a responsabilità economiche non indifferenti per l'amministratore.
In considerazione di tali valutazioni, pertanto, è possibile affermare che la locazione di un bene immobile condominiale può essere deliberata:
a) in prima convocazione con il voto favorevole della maggioranza dei partecipanti alla riunione e almeno 500 millesimi;
b) in seconda convocazione con il voto favorevole della maggioranza dei partecipanti alla riunione e almeno 333 millesimi.
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