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Vessatoria la clausola che prevede in caso di recesso del contratto di mediazione il pagamento di un corrispettivo parametrato al prezzo di vendita in maniera automatica, senza collegarlo al compimento effettivo dell'attività di ricerca e delle attività propedeutiche alla vendita.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella sentenza n. 19565 depositata il 18 settembre 2020.
Entriamo nello specifico, per comprendere come la Corte è pervenuta a tale conclusione; vedremo così che la Corte compie un excursus delle norme e della giurisprudenza.
Vedremo inoltre cosa hanno deciso i giudici del primo e del secondo grado.
La controversia nasce dalla contestazione circa la validità di una clausola contenuta nel contratto di mediazione con il quale i ricorrenti avevano affidato l'incarico di vendere un proprio immobile.
Tale clausola prevedeva, in caso di recesso, il pagamento di una somma pari ad una percentuale del prezzo di vendita.
I ricorrenti recedevano anticipatamente dal contratto, ma non pagavano la detta somma e l'Agenzia immobiliare otteneva l'emissione del decreto ingiuntivo.
I consumatori, allora, si opponevano al decreto ingiuntivo affermando, per quello che qui interessa, il carattere vessatorio della clausola: denunciavano cioè il significativo squilibrio contrattuale derivante dall'applicazione della clausola che, nell'indicare il corrispettivo per il caso di recesso dei consumatori, non lo rapportava all'attività effettivamente svolta dall'Agenzia.
L'iniquità della previsione era confermata dalla scarsa differenza tra la percentuale prevista per il caso di recesso (1%) e quella prevista per la conclusione dell'affare (1,5%).
Il Giudice di Pace accoglieva l'opposizione e revocava il decreto ingiuntivo opposto, dichiarando nullo ed inefficace il contratto stipulato tra le parti.
Il Giudice applicava quindi le norme del Codice del Consumo (D. Lgs. n. 205/2006).
In secondo grado la situazione si capovolgeva: non venivano applicate le norme del Codice del Consumo, ma quelle di cui all'art. 1469 bis e ss. c.c., la clausola in questione non veniva qualificata vessatoria ed il Tribunale confermava il decreto ingiuntivo.
Si osservava, in particolare che la clausola poneva le parti su un piano paritario, prevedendo per entrambi la facoltà di recedere pagando lo stesso importo; inoltre la quantificazione non era per il Tribunale indice di vessatorietà, perché era ridotta di bene un terzo rispetto alla percentuale dovuta come provvigione.
Per la Corte di Cassazione il ricorso è fondato; vediamo quali sono in sintesi i principi di diritto con cui la Corte conclude.
Ad essi dovrà attenersi nella sua decisione il Tribunale (in diversa composizione), al quale viene reinviato il giudizio.
Il primo principio afferma che la clausola contrattuale che attribuisca al mediatore il diritto alla provvigione anche nel caso di recesso del venditore può presumersi vessatoria ove il compenso non trovi giustificazione nella prestazione svolta dal mediatore.
Spetta al giudice di merito valutare se nel concreto il mediatore abbia svolto una qualche attività tra quelle propedeutiche e necessarie di ricerca dei soggetti interessati ad acquistare il bene.
Il secondo principio dichiara che si presume vessatoria la clausola che prevede che il professionista può trattenere una somma di denaro pagata dal consumatore nel caso in cui questi non concluda il contratto o receda, e non prevede il diritto del secondo ad avere il doppio della somma versata nel caso in cui sia il professionista a non concludere il contratto o a recedere.
Questi i passaggi salienti della decisione: in primis si chiarisce che il Codice del Consumo, che trova origine nella Direttiva Eu direttiva 93/13, ha la sua ragion d'essere (secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia) nella posizione di disparità nei contratti dove una delle due parti è un consumatore.
Spostando l'attenzione sul concetto di clausola vessatoria, la Corte osserva che il Codice del Consumo, secondo la prescrizione della Direttiva 13 del 1993, prevede la nullità delle clausole vessatorie, definite all'art. 33 comma 1 come:
le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto (art. 33 co.1 lett. D.Lgs n. 206/2005).
Si tratta di una enunciazione di ordine generale e, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, la previsione che in questi casi il consumatore è svincolato dalla clausola è norma di diritto pubblico.
L'art. 33, comma 2 del Codice del Consumo contiene poi un elenco di clausole dove la vessatorietà è relativamente presunta, cioè può essere esclusa se il professionista fornisce la prova contraria.
La Corte ricorda poi che il Codice esclude la vessatorietà se:
le clausole o gli elementi di clausola … siano stati oggetto di trattativa individuale art. 34 co. 3, D. Lgs. n. 206/2005).
La prova spetta al professionista.
Inoltre si ricorda che il Codice prevede che:
la valutazione del carattere vessatorio della clausola non attiene alla determinazione dell'oggetto del contratto, nè all'adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, purché tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile (art. 34 co.2 D. Lgs. n. 206/2005).
La Corte ricorda che nella sentenza n. 22357/2010 si è stabilito che la clausola che attribuisca al mediatore il diritto alla provvigione anche ove l'affare non si concluda per fatto del venditore può presumersi vessatoria qualora le parti non abbiano pattuito un meccanismo di adeguamento dell'importo all'attività sino a quel momento concretamente svolta dal mediatore.
La Corte osserva che nella sentenza del 2010 si spiegò che il compenso del mediatore, in quel caso si giustifica con lo svolgimento di una concreta attività di ricerca di terzi interessati e, aggiunge qui, l'accertamento dell'abusività della clausola va svolto anche nell'ipotesi in cui sia previsto il diritto di recesso, come quella in esame.
Non si tratta, dunque di sindacato sull'oggetto del contratto, vietato dall'art. 34 comma 2 del Codice del Consumo.
L'accertamento sulla vessatorietà della clausola è, invece, un dovere del giudice, che deve rilevare anche d'ufficio la nullità di una clausola che determina, a danno del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.
Osservano poi i giudici che nel caso in esame la sentenza impugnata ha escluso la vessatorietà perché l'indennità per il caso di recesso è stabilita anche a carico dell'agenzia e perché vi è stata trattativa tra le parti.
Il giudice però, si osserva, non ha tenuto conto che il compenso andava rapportato all'attività concretamente svolta dal mediatore, aspetto che meritava particolare attenzione data la breve durata del contratto.
Ciò in quanto, su spiega poi, la clausola che riconosce il diritto al compenso svincolato dall'effettivo svolgimento dell'attività di ricerca dei terzi interessati all'affare e delle attività ad esse propedeutiche incide negativamente sull'equilibrio contrattuale previsto dall'art. 33 del Codice del Consumo.
La valutazione in concreto dell'attività svolta impedisce che il diritto alla provvigione da parte del mediatore possa essere svincolato dallo svolgimento di qualsiasi controprestazione.
Il sindacato sull'equilibrio contrattuale, uno dei cardini dell'attività interpretativa nei contratti conclusi con il consumatore risulta qui per i Giudici omesso.
Ricordano poi i Giudici che più volte la Corte di Giustizia ha affermato che, in assenza di un controllo del giudice sull'abusività delle clausole, il rispetto dei diritti di cui alla direttiva 93/13 non può essere garantito.
Controllo che può essere effettuato anche d'iniziativa dal giudice per ovviare allo squilibrio tra il consumatore ed il professionista.
Omessa anche la verifica concreta dell'ipotesi per cui è vessatoria la clausola che consente:
al professionista di trattenere una somma di denaro versata dal consumatore se quest'ultimo non conclude il contratto o recede da esso, senza prevedere il diritto del consumatore di esigere dal professionista il doppio della somma corrisposta se è quest'ultimo a non concludere il contratto oppure a recedere (v. art. 33 co. 2 lett. e Cod. Cons.)
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