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Parlando di usucapione gli operatori del diritto intendono far riferimento ad un modo di acquisto a titolo originario della proprietà e dei diritti reali di godimento (escluse le servitù non apparenti), in virtù di un possesso non vizioso e continuato per un determinato periodo di tempo, che varia a seconda della natura del bene posseduto (Katia Mascia, L'usucapione. La casistica giurisprudenziale di acquisto della proprietà di beni mobili e immobili e di altri diritti reali attraverso il decorso del tempo, Halley editrice, 2007).
D'altra parte è lo stesso art. 1158 c.c. a specificare che la proprietà dei beni immobili e gli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi si acquistano in virtù del possesso continuato per venti anni.
Il successivo articolo 1159 chiarisce che in alcuni casi (nella specie acquisto in buona fede dal non proprietario in base a titolo inidoneo ma regolarmente trascritto), acquista per usucapione in dieci anni.
Insomma l'usucapione dà valenza giuridica ad una determinata situazione di fatto protrattasi per un lungo periodo di tempo.
Pure se parliamo di proprietà, come s'è detto in principio, l'usucapione è istituto che si applica ad ogni altro diritto reale di godimento su cosa altrui, eccezion fatta che alle servitù apparenti.
Il giudice chiamato a pronunciarsi sull'acquisto lo accerta e non lo costituisce; in sostanza al magistrato spetta il compito di appurare se sono presenti tutti gli elementi utili a far operare questa modalità di acquisto della proprietà.
Quali sono questi elementi?
Secondo la Suprema Corte di Cassazione per la configurabilità del possesso ad usucapionem, è necessaria la sussistenza di un comportamento continuo, e non interrotto, inteso inequivocabilmente ad esercitare sulla cosa, per tutto il tempo all'uopo previsto dalla legge, un potere corrispondente a quello del proprietario o del titolare di uno ius in re aliena (ex plurimis Cass. 9 agosto 2001 n. 11000), un potere di fatto, corrispondente al diritto reale posseduto, manifestato con il compimento puntuale di atti di possesso conformi alla qualità e alla destinazione della cosa e tali da rilevare, anche esternamente, una indiscussa e piena signoria sulla cosa stessa contrapposta all'inerzia del titolare del diritto (Cass. 11 maggio 1996 n. 4436, Cass. 13 dicembre 1994n. 10652) (Cass. 23 maggio 2012 n. 8158).
Come in ogni giudizio nel quale una persona chiede che venga accertato o costituito un diritto, anche nel caso dell'accertamento dell'usucapione, chi domanda in giudizio deve provare il fondamento delle proprie pretese.
Insomma spetta a chi ne vuole beneficiare provare d'aver usucapito.
In tal senso è stato detto che chi agisce in giudizio per essere dichiarato proprietario di un bene, affermando di averlo usucapito, deve dare la prova di tutti gli elementi costitutivi della dedotta fattispecie acquisitiva e, quindi, non solo del corpus, ma anche dell'animus; quest'ultimo elemento, tuttavia, può eventualmente essere desunto in via presuntiva dal primo, se vi è stato svolgimento di attività corrispondenti all'esercizio del diritto di proprietà, sicchè è allora il convenuto a dover dimostrare il contrario, provando che la disponibilità del bene è stata conseguita dall'attore mediante un titolo che gli conferiva un diritto di carattere soltanto personale (Cass. 11 giugno 2010 n. 14092).
Sull'animus possidendi pare utile una precisazione.
Secondo la Cassazione, infatti, l'animus possidendi, necessario all'acquisto della proprietà per usucapione da parte di chi esercita il potere di fatto sulla cosa, non consiste nella convinzione di essere proprietario (o titolare di altro diritto reale sulla cosa), bensì nell'intenzione di comportarsi come tale, esercitando corrispondenti facoltà, mentre la buona fede non è requisito del possesso utile ai fini dell'usucapione.
Di conseguenza, la consapevolezza di possedere senza titolo, ed il compimento di attività negoziali o di altra natura, finalizzate a ottenere il trasferimento della proprietà del bene posseduto o la stabilità sul piano formale della situazione giuridica rispetto ad esso non esclude che il possesso sia utile ai fini dell'usucapione (Cass. 15 luglio 2002 n. 10230).
Uno degli elementi idonei a neutralizzare il passare del tempo e quindi l'acquisto per usucapione sono i così detti atti di tolleranza; in sostanza il proprietario di un fondo accetta il comportamento del vicino o di chicchessia (purché tra questi soggetti vi sia un minimo di conoscenza) senza opporsi ma non per questo rassegandosi all'idea di vedersi privati della sua proprietà.
Che cosa sono effettivamente questi atti di tolleranza (art. 1144 c.c.)?
Secondo i giudici della Cassazione gli atti di tolleranza, che secondo l'art. 1144 c.c., non possono servire di fondamento all'acquisto del possesso, sono quelli che implicando un elemento di transitorietà e saltuarietà comportano un godimento di modesta portata, incidente molto debolmente sull'esercizio del diritto da parte dell'effettivo titolare o possessore, e soprattutto traggono la loro origine da rapporti di amicizia o familiarità - come nella specie - (o da rapporti di buon vicinato sanzionati dalla consuetudine), i quali mentre a priori ingenerano e giustificano la permissio, conducono per converso ad escludere nella valutazione a posteriori la presenza di una pretesa possessoria sottostante al godimento derivatone.
Pertanto nell'indagine diretta a stabilire, alla stregua di ogni circostanza del caso concreto, se un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o altro diritto reale sia stata compiuta con l'altrui tolleranza, e quindi sia inidonea all'acquisto del possesso, la lunga durata dell'attività medesima può integrare un elemento presuntivo, nel senso dell'esclusione di detta situazione di tolleranza, qualora si verta in tema di rapporti non di parentela, ma di mera amicizia o buon vicinato, tenuto conto che nei secondi, di per sè labili e mutevoli, è più difficile il mantenimento di quella tolleranza per un lungo arco di tempo (Cfr. anche Cass. Sentenze n. 04631 del 1990, 08194 del 18/06/2001) (Cass. 20 febbraio 2008 n. 4327).
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