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15 Luglio 2010 ore 14:13 - NEWS Parti comuni |
Il codice civile del 1942 disciplina la fattispecie del condominio negli edifici (artt. 1117-1139 c.c.), ossia quella particolare forma di comunione nella quale al fianco di piani o porzioni di proprietà esclusiva (unità immobiliari) vi sono parti dello stabile (locali, impianti, ecc.) di proprietà comune.
La peculiarità del condominio sta nel fatto che queste parti, elencate in modo esemplificativo dall'art. 1117 c.c., sono in un rapporto di funzionalità ed accessorietà rispetto alle unità immobiliari sicché, salvo particolati ipotesi, non sono suscettibili di divisione.
Proprio in ragione di ciò si è soliti affermare che il condominio rappresenta una comunione forzosa.
L'evoluzione urbanistica ha portato alla nascita di conglomerati di edifici, già di per sé costituenti condominio, i quali hanno in comune tra loro una serie di cose, impianti e servizi.
Questa tipologia edilizia ha preso il nome, secondo quella che è l'unanime definizione dottrinaria, che come si vedrà oltre è stata recepita anche dalla giurisprudenza di merito e di legittimità di supercondominio (o anche condominio complesso).
In assenza di una specifica disciplina normativa che regolamentasse tale fattispecie, la gran parte del dibattito dottrinario in materia, quanto meno nei primi tempi, è stata rivolta alla individuazione delle norme applicabili.
Due le posizioni:
a) da un lato chi propendeva per l'applicazione degli articoli dettati in materia di comunione (artt. 1100-1116 c.c.);
b) dall'altra parte una nutrita schiera di studiosi che, invece, optava per l'assoggettamento del supercondominio alle norme di cui agli artt. 1117 e ss c.c.
Quanto alla prima tesi, si diceva che le norme dettate in relazione al condominio negli edifici presuppongono che il rapporto la condominialità s'instaura solamente per quei beni che si trovano nell'ambito di un unico fabbricato e non anche per quelle cose sono comuni a più d'uno stabile.
La Cassazione, in quello che è in suo filone dominante, ha fatto propria la seconda ipotesi.
Con una pronuncia resa nel 2000 i giudici di legittimità ebbero a specificare che le parti, necessarie per l'esistenza o destinate al servizio o all'uso di più edifici, appartengono ai proprietari delle unità immobiliari comprese nei diversi fabbricati e vengono regolate, se il titolo non dispone altrimenti, in virtù di interpretazione estensiva ovvero in forza di integrazione analogica, dalle norme dettate in tema di condominio negli edifici (Cass. 7 luglio 2000 n. 9096).
Tale applicazione analogica, spiega la Corte, è possibile poiché, allo stesso modo di quanto avviene per le parti di uso comune afferenti ad una sola costruzione (e, di solito, interne ad essa),le cose, gli impianti ed i servizi elencati dall'art. 1117 cit., comuni a più costruzioni e spesso esterni ad esse, sono del pari necessari per l'esistenza e per l'uso, ovvero sono destinati all'uso o al servizio dei piani o delle porzioni di piano siti nei diversi fabbricati, quando questi sono legati dallo stesso vincolo strumentale, materiale o funzionale (Cass. ult. cit.).
La Suprema Corte, in ragione della necessaria sussistenza di tale vincolo di accessorietà, ha specificato chiaramente che per il caso di beni comuni alle varie realtà condominiali ma sprovvisti del suddetto requisito dell'accessorietà le norme da considerarsi applicabili sono quelle dettate in materia di comunione e non quelle di cui agli artt. 1117 e ss. c.c.
Come dire, se la cosa in comune è imprescindibile per il godimento della proprietà esclusiva (si pensi all'impianto idrico o di riscaldamento) si tratterà di bene sottoposto al regime di condominio.
Qualora, invece, il bene ha una mera di funzione di abbellimento o accrescimento del valore, senza quel requisito di accessorietà che lo renda indispensabile per la fruizione delle unità immobiliari, allora sarà applicabile la disciplina della comunione.
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