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Il regolamento è stato definito lo statuto interno del condominio; in esso, ai sensi dell'art. 1138 c.c., sono contenute le norme che disciplinano l'uso delle cose comuni, il decoro dello stabile la sua amministrazione e la ripartizione delle spese.
Se il regolamento è di natura contrattuale, esso potrà contenere anche delle limitazioni alle facoltà d'uso delle singole unità immobiliari. Le limitazioni dovranno essere considerate tutte validamente poste o esistono dei limiti anche in caso di regolamento contrattuale?
La Cassazione, in diverse occasioni s'è occupata del contenuto del regolamento di condominio e dei limiti e dei divieti connessi alla sua natura.
Secondo gli ermellini, infatti, non è sufficiente che, ad esempio, un regolamento abbia origine e natura contrattuale per poter limitare i diritti dei singoli condomini sulle proprie unità immobiliari; tali divieti e limiti, infatti, devono avere determinate caratteristiche formali per potere essere considerati validamente operanti.
Con una sentenza del 18 settembre 2009, la n. 20237, la Suprema Corte ha affrontato la questione, ribadendo quello che può dirsi il proprio orientamento consolidato: i divieti d'uso delle unità immobiliari, contenuti nelle clausole del regolamento di condominio, devono essere esplicitati chiaramente.
Tale limitazione può essere fatta in due modi:
a) elencando esplicitamente gli usi non consentiti;
b) facendo riferimento ai pregiudizi che un determinato uso può causare.
Nel primo caso, il divieto è espresso a priori, quindi l'utilizzo ipotizzato non potrà essere fatto, se corrispondente ad uno di quelli vietati.
Nel secondo caso bisognerà sempre valutare in concreto l'Regolamento di condominio effettiva lesione degli interessi protetti.
Due esempi chiariranno la portata di entrambi i limiti.
Per la prima ipotesi si faccia riferimento al regolamento (contrattuale) che vieta di adibire i locali commerciali posti al piano terra dell'edificio ad attività ristorative. In tal caso, fatta salva l'ipotesi di una deroga concessa (con l'unanimità dei consensi dei condòmini) dall'assemblea, il proprietario non potrà né direttamente, né indirettamente (es. concedendo in affitto l'unità immobiliare) destinare il proprio locale a pizzeria, ristorante, trattoria ecc.
Nella seconda ipotesi, per esempio, si potrà dire che sono vietate tutte le attività che possano recare disturbo alla tranquillità, alla serenità, al riposo delle persone o che comportino odori sgradevoli. In questo caso, è evidente, che poche attività, quanto meno a priori, possano dirsi lesive di questi interessi. È chiaro, quindi, che la valutazione deve essere fatta sempre in concreto e concede un maggiore spazio di manovra in quanto sarà possibile per il condomino interessato predisporre tutti i rimedi utili a eliminare i pregiudizi e continuare l'utilizzo prescelto.
Tornando all'esempio della pizzeria, si pensi all'ipotesi in cui non è vietata espressamente una simile attività, ma siano vietate tutte quelle attività che possano recare esalazioni di odori sgradevoli.
In questi casi il condomino che inizia l'attività, o al quale preventivamente vengono mossi dei rilievi, potrà proporre tutta una serie di rimedi utili ad eliminare il pregiudizio scaturente dall'uso della sua unità immobiliare.
Nel caso sotteso alla sentenza n. 20237, nel regolamento condominiale si era adottato un criterio c.d. misto, ossia si faceva riferimento ad entrambe le modalità di limitazione.
Più nello specifico la clausola oggetto della controversia recitava: I condomini, pur essendo investiti di tutti i privilegi della proprietà, non potranno fare uso in contrasto con la moralità, la tranquillità ed il decoro della casa stessa.
È perciò vietato destinare i locali dell'edificio ad uso albergo, pensione, sale di società per trattenimento e gioco (...), di scuole di musica, canto e ballo, di attività rumorose o comunque pericolose.
Il condomino soccombente – cui era stata vietata dal giudice d'appello la destinazione fino ad allora tenuta, ossia circolo privato (con attività d'intrattenimento e ristorazione) – nel proprio ricorso sosteneva che con il criterio c.d. misto, l'attività espressamente nominata fosse vietata solamente laddove recasse uno dei pregiudizi indicati, che a suo dire, nel proprio caso non ricorrevano.
Il Supremo Collegio, rigettando questa ipotesi interpretativa e riprendendo quanto detto dal giudice d'appello, ha affermato che poiché nel regolamento del Condominio […] sono stati utilizzati entrambi i criteri di individuazione delle attività vietate, deve ritenersi da un lato che l'elenco delle attività vietate, non sia tassativo, e che il divieto si estenda anche a tutte le destinazioni non espressamente menzionate, che siano comunque idonee a provocare i pregiudizi che si intendono evitare; e dall'altro che tutte le attività specificamente indicate siano di per sè vietate, senza necessità di verificare in concreto l'idoneità a recare i pregiudizi suddetti.
Come dire, se l'attività è espressamente indicata non c'è bisogno di verificare che rechi uno dei pregiudizi elencati.
Non è raro che leggendo un regolamento ci si sia posti la domanda: che cosa s'intende dire in quella clausola?
Non sempre, infatti, le norme regolamentari condominiali sono scritte in modo chiaro e preciso, sicché diventa obbligatoria un'attività interpretativa finalizzata a coglierne il reale significato.
Quando si potrà dire che l'interpretazione adottata sia quella corrispondente a ciò che quella clausola effettivamente vuole dire?
Per rispondere alla domanda prendiamo spunto da una sentenza di Cassazione, ossia dalla pronuncia n. 27932 del 28 dicembre 2009.
Il regolamento di condominio, sia esso di natura contrattuale (ossia accettato da tutti i condomini al momento della stipula o votato e sottoscritto, in un secondo momento, da tutti i partecipanti al condominio), sia esso di natura assembleare (ossia adottato dall'assemblea con le maggioranze indicate dall'art. 1138, terzo comma, c.c.) deve essere interpretato alla stregua dei canoni utilizzati per l'interpretazione dei contratti.
Il concetto è stato più volte ribadito dalla Corte di Cassazione che intervenendo sulla vicenda, interpretazione del regolamento di condominio, ha affermato che il giudice deve osservare gli stessi canoni ermeneutici stabiliti dagli artt. 1362 cod. civ. e segg., per la interpretazione degli atti negoziali, avendo questi validità generale (così, ex multis, Cass. 23 gennaio 2007 n. 1406).
Il principio generale delle norme dettate in materia d'interpretazione dei contratti è che:
Nell'interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole. Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto (art. 1362 c.c.).
In sostanza ciò che conta, in via principale, è ciò che le parti hanno voluto dire e non semplicemente quello che si è scritto.
Nel caso deciso dalla Cassazione, con la sentenza 27392/09, le parti ricorrenti lamentavano un'erronea interpretazione del regolamento di condominio in relazione a tutta una serie di elementi (atti di transazione, rogiti notarili) che avevano portato alla sua formulazione. In pratica, per un errore materiale, il regolamento indicava per la ripartizione delle spese di portierato una tabella diversa rispetto a quella che le parti, precedentemente, avevano indicato come tabella da utilizzare per quel tipo di spese.
Apertosi un contenzioso sul punto i ricorrenti sono dovuti arrivare al giudizio per Cassazione per sentirsi dare ragione.
Secondo gli ermellini, infatti, deve ritenersi che la intitolazione delle tabelle non possa essere obliterata, quale criterio interpretativo della volontà delle parti, in favore di una opzione ermeneutica del regolamento condominiale fondata sul mero dato letterale, ove lo stesso sia in palese contrasto con la comune intenzione delle parti stesse (Cass. 28 dicembre 2009 n. 27392).
Ciò significa che, proprio in ossequio a quel principio per il quale i contratti devono essere interpretati secondo quella che è stata la comune intenzione delle parti, non ci si può fermare al fatto che il regolamento indichi una tabella laddove sia dimostrabile che quell'indicazione è frutto di una svista o di un cattivo coordinamento tra quanto stabilito e quanto scritto nel regolamento.
C'è una norma del codice civile, il riferimento è il quarto comma dell'art. 1138, che pone ben precisi limiti contenutistici al regolamento condominiale. Recita la norma:
Le norme del regolamento non possono in alcun modo menomare i diritti di ciascun condomino, quali risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni, e in nessun caso possono derogare alle disposizioni degli artt. 1118 secondo comma, 1119, 1120, 1129, 1131, 1132, 1136 e 1137.
Esempio:
Se un condominio conta più di otto partecipanti è obbligatorio nominare l'amministratore: a sancirlo l'art. 1129 c.c. Poiché tale norma è compresa nell'elenco di cui al quarto comma dell'art. 1138 c.c. non è possibile, per via regolamentare, sancire, per esempio, che la nomina non è obbligatoria o lo è quando i condomini sono più di dieci.
In tal senso, in una lontana pronuncia, il Tribunale di Napoli specificò che in tema di condominio negli edifici, relativamente all'amministratore del condominio, qualora i condomini risultino essere più di quattro (si tratta della soglia di obbligatorietà prevista prima dell'approvazione della riforma del condominio n.d.A.), ex art. 1138, le disposizioni di legge sulla obbligatorietà della nomina dell'amministratore da parte dell'assemblea e la relativa durata massima per il periodo di un anno sono dichiarate inderogabili anche dal regolamento contrattuale e tanto a pena d'inefficacia (nella specie, la società venditrice degli immobili si era riservata l'incarico di amministratore in virtù di mandato preteso dai compratori con l'atto di acquisto dell'immobile) (Trib. Napoli 21 marzo 1989 in Arch. locazioni 1989, 512).
Il divieto, per costante orientamento dottrinario e giurisprudenziale, concerne tanto il regolamento assembleare quanto quello contrattuale. Insomma si tratta d'un divieto assoluto.
Questa la spiegazione fornita rispetto a tale presa di posizione: dai lavori preparatori (del codice civile n.d.A.) e dallo stesso quarto comma della norma esaminata (l'art. 1138 c.c. n.d.A.) si ricava che tali articoli non sono mai derogabili (in nessun caso, perciò neanche con regolamenti votati all'unanimità); inoltre a parte che di questi articoli taluni non disciplinano la gestione del condominio, cioè fuoriescono dalla materia strettamente regolamentare, essi tutelano fondamentali interessi del condominio o di terzi (ex. art. 1131 c.c.): motivo per cui il legislatore esige in questo campo che tutti i condominii siano disciplinati ugualmente (Branca, Comunione Condominio negli edifici, Zanichelli, 1982).
La riprova di quanto detto la si ha guardando alle norme che, invece, possono essere derogate con il consenso di tutti i condomini.
Si pensi a quelle sulla ripartizione delle spese: l'art. 1123 c.c. fa specifico riferimento ad una diversa convenzione che può mutare il criterio generale di ripartizione secondo i millesimi di proprietà, nonché quelli d'uso.
Lo stesso art. 1138 c.c., poi, non menziona tra quelli inderogabili la norma succitata a riprova della sua modificabilità purché vi sia il consenso di tutti i comproprietari.
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