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Il condominio, si dice, è una particolare forma di comunione forzosa nella quale coesistono beni in proprietà esclusiva (le unità immobiliari) e parti in proprietà comune ai titolari delle prime.Le cose comuni sono quelle indicate dall'art. 1117 c.c. ed in generale tutte quelle funzionali al miglior godimento delle unità immobiliari.
Tra le parti comuni, salvo diversa indicazione del regolamento contrattuale e/o degli atti d'acquisto, ricade il cortile.
La Cassazione, sostanzialmente riprendendo la definizione comune di cortile, ha chiarito che questa parte dell'edificio, tecnicamente, è l'area scoperta compresa tra i corpi di fabbrica di un edificio o di più edifici, che serve a dare aria e luce agli ambienti circostanti.
Ma avuto riguardo all'ampia portata della parola e, soprattutto, alla funzione di dare aria e luce agli ambienti, che vi prospettano, nel termine cortile possono ritenersi compresi anche i vari spazi liberi disposti esternamente alle facciate dell'edificio - quali gli spazi verdi, le zone di rispetto, i distacchi, le intercapedini, i parcheggi - che, sebbene non menzionati espressamente nell'art. 1117 cod. civ., vanno ritenute comuni a norma della suddetta disposizione (Cass. 9 giugno 2000, n. 7889).
Il ragionamento che bisogna applicare alle cose comuni è pressoché il seguente: i condomini sono comproprietari dei beni di cui all'art. 1117 c.c. ed in generale di quelli comuni.
Il proprietario di una cosa è anche il suo custode e quindi è il responsabile dei danni che ne derivano (ferma restando la responsabilità anche di eventuali preposti, come ad esempio l'amministratore).
La responsabilità per danni da cose in custodia (ex art. 2051 c.c.) ha natura obiettiva e quindi il condominio è responsabile per i danni in via obiettiva.
Essere obiettivamente responsabili significa rispondere di ogni danno che sia stato causato dal bene in custodia, salvo l'avvenimento di un fattore imprevedibile, ossia salvo caso fortuito.
Siccome il cortile è una parte comune, allora il condominio è responsabile in via obiettiva dei danni derivanti dal cortile tanto ai condomini, quanto ai terzi
Responsabilità obiettiva non vuol dire obbligo di pagare per le dabbenaggini o le sviste del danneggiato.
Detta diversamente: chi ha subito il danno anche per colpa propria potrebbe non essere risarcito o essere risarcito in misura minore (cfr. art. 1227 c.c.).
In un caso risolto dal Tribunale di Roma, una signora era scivolata in un cortile condominiale riportando delle lesioni.
Da qui la sua richiesta di danno al condominio.
Richiesta rigettata in ragione del suo comportamento, che, a dire del Tribunale, era risultato determinante ai fini delle lesioni.
Si legge in sentenza che sebbene la responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia, prevista dall'art. 2051 cod. civ., abbia carattere oggettivo, essendo sufficiente, per la sua configurazione, la dimostrazione da parte dell'attore del verificarsi dell'evento dannoso e del suo rapporto di causalità con il bene in custodia e che il custode, per escludere la sua responsabilità, abbia l'onere di provare il caso fortuito (ossia l'esistenza di un fattore estraneo che, per il suo carattere di imprevedibilità e di eccezionalità, sia idoneo ad interrompere il nesso causale), tuttavia, nei casi in cui il danno non sia l'effetto di un dinamismo interno alla cosa, scatenato dalla sua struttura o dal suo funzionamento, ma richieda che l'agire umano, ed in particolare quello del danneggiato, si unisca al modo di essere della cosa, essendo essa di per sé statica e inerte, per la prova del nesso causale occorre dimostrare che lo stato dei luoghi presentava un'obiettiva situazione di pericolosità, tale da rendere molto probabile, se non inevitabile, il danno (cfr. Cass. n. 2660 del 5.2.2013).
La responsabilità da cose in custodia ex art. 2051 cod. civ., infatti, sussiste qualora ricorrano due presupposti: un'alterazione della cosa che, per le sue intrinseche caratteristiche, determina la configurazione nel caso concreto della cd. insidia o trabocchetto e l'imprevedibilità e l'invisibilità di tale alterazione per il soggetto che, in conseguenza di questa situazione di pericolo, subisce un danno (cfr. Cass. 11592 del 13/05/2010) (Trib. Roma 15 novembre 2013 n. 22967).
Nel caso di specie, ha concluso il Tribunale di Roma, dall'istruttoria della causa è emerso che non è stata la cosa in sè a porsi come causa del danno ma che, invece, è stata la danneggiata con il proprio comportamento maldestro (così si legge in sentenza) a creare la condizione per farsi male.
Come si dice in queste circostanze: chi è causa del suo mal pianga se stesso! (e non pretenda denari, aggiungiamo noi).
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