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Lavori domestici: deve svolgerli anche l'uomo? Sentenza affermativa

Il contrario, e cioè che l'uomo non vi sia portato allo svolgimento di lavori domestici, non è scritto da nessuna parte; nè in natura, nè in sentenza, per fortuna.
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Si scrive casalinga, ma si legge casalingo e/o casalinga


CasalingoLa questione su cui questa volta la Corte si è dovuta cimentare (Cass. 24471 del 18 novembre 2014) è stata la verifica della fondatezza dell'assunto secondo parametri logico-giuridici.

Andiamo per ordine.

Un uomo, sposato e padre di famiglia, e la moglie si rivolgevano al Tribunale per ottenere il risarcimento dei danni subiti a causa di un incidente stradale che aveva prodotto lesioni gravi all'uomo. Domandavano, tra l'altro, lui, il risarcimento del danno da perdita della capacità di lavoro, ivi compreso quello domestico; lei, il risarcimento del danno non patrimoniale cagionatole indirettamente dalle sofferenze del coniuge, come del danno patrimoniale derivato dalla necessità di abbandonare lo svolgimento delle attività domestiche, per dovere assistere il marito infermo.

Il Tribunale accolse la domanda, ma liquidò una somma inferiore a quanto richiesto, pertanto l'uomo e la donna ricorsero in appello.

La Corte di Appello rigettava le domande così motivando: riguardo a lui, dopo avere riconosciuto la utilità del lavoro domestico e la valutabilità da un punto di vista economico, dunque anche la risarcibilità del danno patrimoniale conseguente all'impossibilità di esercitare le faccende domestiche, concludeva però, che non rientra nell'ordine naturale delle cose che [il lavoro domestico venga svolto] da un uomo.

La Cassazione ha annullato detta motivazione sotto il profilo della contradditorietà, per tre ragioni, affermando, che: primo, [...] non è certo madre natura a stabilire i criteri di riparto delle incombenze domestiche tra i coniugi. Tale riparto è ovviamente frutto di scelte soggettive e di costumi sociali, le une e gli altri nemmeno presi in considerazione dalla Corte d'appello; le conclusioni della Corte di Appello, evidenzia la Cassazione, non sono solo contrarie alle leggi di natura, ma anche alle leggi degli uomini: ed infatti, la seconda ragione di contradditorietà della sentenza è rinvenuta nella contrarietà della stessa al basilare principio giuridico di parità e pari contribuzione dei coniugi ai bisogni della famiglia, sancito dai commi 1 e 3 dell'art. 143 c.c.: principio al quale, in assenza di prove contrarie, che, dice la Corte, sarebbe stato onere dei convenuti addurre e che non furono addotte, è ragionevole presumere che i cittadini si conformino, visto che, afferma la Corte, è ragionevole presumere che i cittadini conformino la propria vita familiare ai precetti normativi, piuttosto che al contrario; terzo, in base all'id quod plerumque accidit qualunque persona non può fare a meno di occuparsi di una certa aliquota del lavoro domestico: non foss'altro per quanto attiene le proprie personali esigenze; insomma oramai la società è matura perché ognuno badi a sè. Almeno per le cure più essenziali; d'altronde siamo nella società dei singles.

Lavori domesticiChi scrive aggiungerebbe, tra le previsioni normative, anche i principi di uguaglianza e pari dignità dei cittadini; principi sanciti dall' art. 3 della Costituzione, oltre che, in particolare, dall'art. 29, della Costituzione, secondo il quale il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare.

Pertanto conclude la Corte, dal fatto noto che una persona sia rimasta vittima di lesioni che l'abbiano costretta ad un lungo periodo di rilevante invalidità, è possibile risalire al fatto ignorato che a causa dell'invalidità non abbia potuto attendere al ménage familiare. La Corte d'appello, invece, ha capovolto tale deduzione logica, assumendo che dal fatto noto del sesso (maschile) dell'infortunato fosse possibile risalire al fatto ignorato che egli si disinteressasse completamente di qualsiasi attività domestica.

Le conseguenze che il giudice trae dal fatto noto per risalire ad un fatto ignorato sono dette presunzioni semplici e sono previste dagli art. 2727 e 2729 c.c. L'espressione id quod plerumque accidit (trad. ciò che accade di solito) sta ad indicare quelle nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza e che il giudice può mettere a fondamento della decisione, senza bisogno di prova (art. 115 c.p.c.). Dunque, afferma la Cassazione, la comune esperienza sta ad indicare l'esatto contrario di ciò che, secondo la Corte di Appello, sarebbe scritto in natura.


Lavoro casalingo e lavoro domestico


Anche le richieste di lei non erano state accolte dalla Corte di appello, e ciò con il motivo che l'impossibilità di occuparsi delle faccende domestiche è danno non patrimoniale, attiene, insomma alla sfera degli affetti, per dirla sbrigativamente, e non patrimoniale, valutabile secondo parametri economici; e che comunque l'attrice avrebbe potuto ottenere il risarcimento del danno solo provando che l'esigenza di accudire il marito l'avesse distolta completamente e quotidianamente dalle occupazioni domestiche.

La Corte di Cassazione annulla la sentenza di secondo grado anche sotto questo profilo, affermando, quanto al primo motivo, che: È indubitabile che l'abbandono delle cure domestiche, ed in particolare la forzosa rinuncia ad occuparsi di figli minori, possano in teoria costituire un danno non patrimoniale ma, continua la Corte, è altrettanto indubitabile che tale pregiudizio non ha nulla a che vedere con il danno patrimoniale consistito nella perduta possibilità di svolgere una attività suscettibile di valutazione economica come il lavoro domestico.

I due profili, quello del danno non patrimoniale e quello del danno patrimoniale sono separati e non alternativi, ma anzi possono coesistere, dunque possono essere richiesti dall'attore cumulativamente e possono essere riconosciuti contemporaneamente dal giudice, se sussistono i presupposti.

L'illogicità della sentenza è dunque rinvenuta nel non avere ritenuto alternativi e autonomi, i due profili di danno: il danno patrimoniale e quello non patrimoniale. Una felice e seguita esposizione sul punto è racchiusa nella succitata sentenza del Tribunale di Napoli del 17 febbraio del 2010, sez.I.


Abbandono parziale totale del lavoro domestico


Infine, la parte in cui la sentenza di appello nega il risarcimento del danno sul presupposto della mancata prova da parte della donna dell'avere abbandonato completamente e quotidianamente il lavoro domestico, è cassata con la considerazione che la perduta possibilità di svolgere lavoro domestico costituisce un danno patrimoniale, pari al costo ideale di un collaboratore cui affidare le incombenze che la vittima non ha potuto sbrigare da sé e che questo danno può ben essere totale o parziale e non ha alcun fondamento logico il rigetto della domanda per l'assenza di una prova dell'abbandono totale, dovendosi risarcire, ai sensi dell'art. 1223 c.c., ogni danno che sia conseguenza immediata e diretta del fatto illecito. L'affermazione oltre che illogica, è altresì illegittima, secondo la Corte, in quanto posta in violazione di una norma di legge, quella contenuta nell'art. 1223, cit.


Sinistro e risarcimento per perdita di capacità lavorativa; il lavoro casalingo


Ormai da tempo la perdita della capacità di attendere alle faccende domestiche è considerata dalla giurisprudenza un danno di tipo patrimoniale, perlomeno con riferimento a qualla parte dei lavori domestici che potrebbero essere svolti da un estraneo alla famiglia e che in tal caso sarebbero senza dubbio retribuiti (si veda ad es. Cass. n.16392/2010, e Trib. Napoli, 17.02.2010).

Vi è poi una sfera dell'attività domestica infungibile e collegata invece agli affetti, la cui perdita è risarcita sotto la voce del danno non patrimoniale; dice benissimo la sentenza del Tribunale di Napoli del 17 febbraio 2010, cit. la posizione della casalinga/o è complessa e si caratterizza - rispetto a quella di una collaboratore/collaboratrice domestico/a - per il fatto di essere posta in essere nel contesto di una dimensione familiare, ...solo in parte questa attività può considerarsi patrimoniale, essendo per il resto di natura personale e infungibile e determinata e caratterizzata, anche per le sue concrete modalità attuative, dall'affetto familiare: è la posizione familiare della donna/uomo che svolge l'attività di casalinga/o che rende peculiare la sua quotidiana prestazione rispetto alla collaboratrice; è il vincolo - legale o anche solo di fatto - di tipo familiare che, per così dire, colora e arricchisce quelle prestazioni domestiche di un quid pluris che di certo non può farsi coincidere con le mere faccende domestiche [...] quindi, che all'interno della generica nozione di attività di casalinga è da distinguersi una parte di sicuro rilievo patrimoniale, consistente nello svolgimento di faccende domestiche usualmente surrogabili da una collaboratrice/collaboratore domestica: ebbene, l'impossibilità di svolgere tali attività può certamente determinare un danno patrimoniale da parametrare tendenzialmente alla retribuzione da corrispondere al collaboratore/collaboratrice domestico/a. Deve, poi, considerarsi in modo del tutto distinto, invece, il profilo familiare di tale attività, cioè il fatto che questa sia posta in essere in quanto espressione di un legame familiare... l'attività di casalinga/o non può neppure essere equiparata ad un'ordinaria attività infungibile [...].

Tale così detta dimensione familiare rappresenta certamente un bene costituzionalmente rilevante, proprio per quanto detto: l'attività di casalinga/o rappresenta infatti un momento fondamentale per la realizzazione della vita familiare il cui rilievo trova immediato riscontro nell'art. 29 e art. 2 Cost..

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Sentenza lavori domestici uomo
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